Chiara, passo dopo passo da Mlali

Hatua kwa hatua, passo dopo passo…


Un mese nel Centro per bambini disabili di Mlali

 

La curiosità.
Il desiderio di vivere una realtà diversa da quella a cui sono abituata.
La voglia di cercare nuovi mondi e capire quale sia la strada che il Signore ha pensato per me.
Credo siano queste le principali motivazioni che mi hanno portato nel mese di ottobre, al Mlali Kituo, nel cuore della Tanzania, ospite dei frati Cappuccini.
Si tratta di una realtà che accoglie bambini con gravi disabilità sia fisiche sia mentali, le cui famiglie non hanno la possibilità di occuparsi.

 

Durante la mia permanenza ho potuto lavorare insieme alle volontarie del centro, che quotidianamente accudiscono i bambini, dandogli da mangiare, lavandoli, facendogli fare fisioterapia, o semplicemente giocando con loro.
Per la prima volta nella mia vita, mi sono trovata ad affrontare la disabilità, e complice la spensieratezza con cui sono partita, l’impatto è stato davvero forte.
Gesti che per le volontarie erano ormai un’abitudine e che compivano con grande naturalezza, a me sembravano forzati: all’inizio nulla di ciò che facevo, mi sembrava giusto.
Ciò che più mi ha sorpreso è stato rendermi conto, che erano gli stessi bambini di cui mi sarei dovuta occupare, a prendersi cura di me.
Mi hanno preso per mano, accompagnandomi in questa avventura, ridendo dei miei piccoli errori e festeggiando con me, quando giorno dopo giorno, sono riuscita ad inserirmi nella loro quotidianità, facendomi sempre sentire amata.
Senza saper parlare, mi hanno insegnato ad usare parole nuove e senza saper camminare, mi hanno insegnato che a volte, per rimanere in piedi, basta mettere un piede davanti all’altro, senza aver paura di cadere. Perché i bambini al Mlali Kituo, di paura non ne hanno mai.

 

Chiara

Progetto alimentare a Muhanga

8x1000 chiesa valdese

 

 

 

Il progetto che Smile Mission sta portando avanti grazie all’aiuto della Tavola Valdese sta arrivando al termine del secondo anno. Si tratta di un progetto di sostegno alla popolazione di Muhanga in Congo R.D. contro la grave crisi alimentare che stanno vivendo e che non sembra trovare fine. Ecco le relazione della seconda missione di Luisa Bertuetti: laureata in lettere, non fa parte del mondo dentale, ma sostiene Smile Mission ed il Congo, ed è stata sul luogo per due mesi, raccogliendo testimonianze e facendo lei stessa testimonianza con i suoi murales artistici e le fotografie toccanti.

Ci auguriamo che la Tavola Valdese continui ad appoggiare questo progetto, anche se l’augurio più grande sarebbe quello che non ce ne fosse più bisogno.

Vai alla relazione completa →

Volontariato odontoiatrico: dal Rwanda la relazione del Dott. Umberto Minichini

Dalla missione di Agosto 2016 in Rwanda la splendida relazione del Dott. Umberto Minichini

Immagine4web

 

Ho iniziato a scrivere questa breve relazione quando è trascorso ormai più di un mese dal mio rientro in Italia. I primi giorni non avevo il tempo tra bagagli da disfare, lavatrici da caricare ed il mio gatto malaticcio che è stato la mia principale preoccupazione durante la missione. Dopo ho volutamente aspettato un po’ per far sedimentare i ricordi e le sensazioni provate.

Leggi la relazione completa→

Volontariato odontoiatrico: la relazione della Dott.ssa Silvia Berlingozzi, Rwanda

Silvia B.

Silvia, venticinquenne, è una volontaria di Smile Mission. Lavora come igienista a Firenze e si sta specializzando nel master in “Sviluppo della salute orale nei Paesi in Via di Sviluppo e Comunità Svantaggiate”. La sua tesi verterà sul progetto di prevenzione dentale in Rwanda ove ha trascorso la sua missione del mese di agosto. Qui di seguito la sua coinvolgente relazione.

“Sono arrivata insieme a Sara, futura maestra e ad Umberto, odontoiatra, a Kigali la notte di giovedì 4 agosto. Abbiamo atteso il pomeriggio successivo suor Marie Therese e dopo 5 ore di jeep, di cui una e mezza percorrendo strade dissestate, arriviamo a Gatare in tarda serata.
La mattina ci alziamo verso le 9.00, usciamo da casa e le colline ci abbracciano, quel verde è inebriante…” continua a leggere → 

Ruanda, il paese dalle mille colline..

Rwuanda 1-2015

Ruanda, 11-28 Agosto 2015

di: Tommaso Guidetti, Laura Crinelli, Paolo Mantoni, Adriano Cella, Lucio Gerardo

“In Ruanda?! Ma con tutti i posti che ci sono al Mondo…” Questa è la litania che abbiamo sentito ripetutamente quando spiegavamo ad amici e parenti dove avremmo trascorso le ferie di agosto. Ci hanno apostrofato come incoscienti e spericolati, ma non gli abbiamo dato retta, perché dentro di noi qualcosa ci suggeriva che sarebbe stata un’esperienza indimenticabile.

Primo mito da sfatare: il Ruanda è un Paese pericoloso. Dopo il genocidio del 1994 regna la sicurezza nel Paese: le strade sono pattugliate dalla polizia e le città di notte sono presidiate dai militari; “Nobody can touch you” ci hanno ripetuto più volte gli abitanti del posto. Abbiamo varie volte passeggiato in città e nei boschi, ma non abbiamo mai avvertito minacce o pericoli. Ovunque andassimo la gente si avvicinava incuriosita e i bambini ci chiamavano a gran voce “muzungu!”, l’appellativo per gli uomini bianchi.

Secondo mito da sfatare: il Ruanda è un Paese disordinato e sporco. Le strade ruandesi sono molto più pulite di quelle italiane e il traffico, anche nella capitale Kigali, scorre fluido e senza intoppi; non si incontra un solo motociclista senza casco! Questi sono alcuni dei motivi per cui il Ruanda viene definito la Svizzera dell’Africa.

L’altro appellativo del Ruanda è “il Paese dalle mille colline”


 

Puoi leggere la relazione completa  dei volontari cliccando su: Ruanda Agosto 2015

Inside AfricA

 

Luglio 2014 – Inside AfricA – di Luisa Bertuetti

Ogni viaggio degno di nota inizia con un’improvvisa illuminazione: un piccolo istante di sana sconsideratezza e di incontrollato entusiasmo per la scoperta, per il mondo e per l’umanità. Accade così in una giornata uggiosa di fine febbraio; arbitrariamente senza troppi piani e perché, prenotai un volo di andata per la RDC e uno di ritorno dalla Tanzania. Piano molto sfuocato, aperto al viaggio. Non sai mai cosa può accadere, chi puoi incontrare ed è bene essere aperti all’imprevisto, anzi accettarlo come un amico. Quattro mesi di vita dentro l’Africa, solo io. Una sfida senza dubbio, perché -e questo posso dirlo soprattutto a posteriori- l’Africa ti mette davvero a confronto con te stesso, senza nessuna via di fuga. Ma allo stesso tempo il viaggiatore solitario è libero e bramoso di scoprire il mondo che gli è attorno. Non è facile, ma ne va la pena.

Africa il continente, ma non solo. Una parola carica di simboli, di immagini, di profumi che reca con sé un alone esotico di misticismo. Una terra dalla bellezza travolgente, dalla natura aggressiva e ruvida, dall’umanità forte e fragile. Non Africa, ma “Afriche” direi… dalle molteplici e variegate realtà nonostante i confini netti tracciati con il righello, che vivisezionano la carta geografica come per ricordarci che le ferite del colonialismo sono ancora lì. E bruciano.

Riassumere la mia Africa qui in poche righe è davvero surreale. Settimane trascorse nella loro duplicità: lente e interminabili come le piogge della foresta congolese e voraci e intense come i tramonti della savana. Ho trascorso i primi tre mesi abbondanti nel Nord Kivu presso la missione di Padre Giovanni e Concetta a Muhanga. Due persone fantastiche, dal grande coraggio e umanità che hanno saputo accogliermi e farmi sentire come a casa. E poi il Kivu: aspro, contraddittorio, dalla natura selvaggia, dalla bellezza rara, dai colori vivaci, dai temporali forti e improvvisi, dalle maree di fango, dalla gente imperscrutabile e imprevedibile. Una realtà fragile e delicata, in cui entrare in punta di piedi. Un mondo rurale che regala giornate tiepide che profumano di serenità, trascorse all’aperto tra gli scherzi dei bambini, la pittura dei miei murales e le chiacchiere con la gente del villaggio. Piccoli gesti quotidiani, una profonda ritualità quella della vita nella foresta. Poi eventi più grandi di te, e ne resti travolto: ribelli, fucili, sparatorie, razzie, bambini soldato, elicotteri dell’ONU. In una sola parola, guerra. Tutto come in un film o come in un libro di storia? No, la guerra vera è paura, dolore; è una mamma che si carica il fagotto in spalle, le sue poche pentole e il materasso e parte con i bimbi. Il villaggio vuoto,  la gente scappa e non sa dove andare: forse la foresta, forse quaranta km a piedi per arrivare al villaggio più sicuro. Lasciare la propria casa, il proprio campo, ovvero iniziare una nuova battaglia: quella contro la fame. E in tutto questo l’indifferenza dei “grandi” enti umanitari internazionali. Forse che il valore della vita sia proporzionale al reddito pro capite? Il dubbio è ragionevole e la rabbia è tanta quando l’ingiustizia del mondo ti colpisce come un pugno in faccia. In tutto questo marasma, la gente della foresta resiste, lotta e regala emozioni. Un’umanità spontanea che ci ricorda che condividere è possibile, che sorridere è lecito e che stando insieme è più facile.

In una domenica mattina piovosa lascio Muhanga: qualche abbraccio fugace, trattengo le lacrime e si va. Preferisco partire con la pioggia, fa sempre meno male. Il viaggio per la Tanzania si prospetta lungo e polveroso. Strade sterrate e fangose costellate di crateri lunari, ritardi, città brulicanti di persone, traghetti, inconvenienti, aeroporti, autobus… ma finalmente, sabato arrivo a destinazione nella mia nuova casa, a Mlali. Impagabile la soddisfazione di farsi una doccia. Il centro ortopedico e di riabilitazione è una realtà collaudata da anni ormai. Padre Sergi e gli altri frati lo gestiscono con passione e tutt’intorno hanno coltivato giardini e alberi da frutta. La realtà tanzaniana mi colpisce subito per la diversità dall’asprezza congolese. Qui ogni cosa è morbida e sinuosa: i colori sono caldi, la terra è di un rosso secco e la temperatura è gentile. È la savana. Aiutare i bimbi di questo centro non è sempre facile, ma dona emozioni intense e facilmente mi faccio contagiare dal loro entusiasmo. Nel pomeriggio invece, mi dedico ad altre attività: lavoro nei campi, faccio la farina, vado al mercato con il pikipiki, mungo le mucche e cerco di imparare il kiswahili. E per un po’ non mi sento più una muzungu, ma parte integrate della vita di questo centro. I frati, nonostante l’iniziale diffidenza, sono deliziosi e mi trattano con dolcezza. Troppo breve purtroppo il mio soggiorno a Mlali. Parto con l’animo colmo di malinconia e con in bocca ancora lo squisito sapore del  morso fugace che ho potuto dare a questa bella e intensa Tanzania.

Questi mesi di vita nel centro Africa sono stati per me una necessità di vedere il “mio” mondo (più per questione di nascita che d’appartenenza) dall’altra parte del mondo, fuori dagli schemi rigidi della nostra società occidentale. Perché mi sono sempre detta, deve esistere un’altra via, un altro modo di vivere libero da tutte queste sovrastrutture che siamo tanto abituati a considerare necessarie.  E la risposta è che un altro modo c’è. Africa è ricchezza, non solo di materie prime, ma soprattutto di umanità, e che offre -a chi le vuol vedere- nuove prospettive; che ci insegna che la diversità è una risorsa. Dico a chi le vuol vedere perché troppo spesso ho incontrato persone occidentali in Africa che non si accorgono di quanto siano ancora figli del colonialismo, tradotto oggi giorno piuttosto in un colonialismo culturale. Uomini troppo spesso dimentichi che sono ospiti in un’altra terra e che è doveroso rispettarne la cultura, le tempistiche e la lingua. Uomini come paladini fieri di una cultura “civilizzata” e aggressiva che pretende di essere “civilizzante”, ma sempre e comunque con le proprie metodologie.

Tirare le somme di questi mesi è altrettanto difficile che raccontarli. Il rientro in Italia è stato ed è tutt’ora traumatico. Lo shock culturale esiste davvero. Senza dubbio è stata un’esperienza unica e rivelatrice: un biglietto di sola andata verso la consapevolezza. E ora… ora mi sento di parlare e condividere il mio vissuto con altri. È questa è un’altra sfida, contro l’indifferenza. Raccontare la verità andando oltre al solito buonismo, è impegnativo e scomodo. Credo che l’Africa non chieda un mero assistenzialismo, ma una presa di coscienza personale, che ci spinga a cambiare la nostra vita e a cercare di cambiare quella degli altri. La verità è che l’Occidente ha troppo perché qualcuno non ha. La verità è che l’Occidente ha rubato e continua a rubare portando avanti perverse e amorali politiche di sfruttamento in tutta l’Africa. E allora scoppio a ridere, ma di una risata cinica quando sento parlare di fame e di povertà con superficialità, di pietismo per il bambino africano che muore di fame e poi… poi esco di casa, mi riempio il frigorifero, spreco e compro i regali di Natale… e certo, un nuovo cellulare. Ah è vero quella storia sul coltan, ma tanto di certo non sarà il mio gesto a cambiare il mondo. Io invece, a volte, invidio il bambino africano che non è schiavo del consumismo, delle multinazionali e della superficialità e che nonostante le privazioni e la durezza che il futuro gli prospetta, è pieno di vita. Ed è libero, e non ha paura della natura o della notte o dei temporali. Non ha paura del diverso, non ha paura del contatto umano… non ha paura di vivere.

Luisa

di Luisa2             di Luisa4