La splendida relazione di Francesca Invrea della sua esperienza nel progetto di fisioterapia a Mlali

Mi chiamo Francesca e sono una fisioterapista torinese di 27 anni.

Quest’anno, durante le vacanze estive, ho provato un’esperienza che da sempre avrei voluto fare: vivere un periodo di volontariato in Africa.

L’occasione è capitata dopo aver ricevuto una mail di Fisioterapisti Senza Frontiere, in cui si ricercavano dei terapisti disposti a dare una mano nel centro di riabilitazione pediatrico di Mlali, in Tanzania. Un master in riabilitazione infantile appena terminato e questo pensiero che già da tempo ricorreva nella mia mente: sicuramente un’opportunità da non perdere.

Ho inviato così la risposta con la mia disponibilità e sono stata ricontattata dopo breve tempo: la possibilità di rendere concreta questa idea sarebbe finalmente diventata realtà!

Ho iniziato così a prendere contatti con Pietro Pazzaglini, fisioterapista di riferimento per il volontariato a Mlali, e con i responsabili di Smile Mission, organizzazione che collabora con il centro e ne coordina i progetti di cooperazione sanitaria (prevalentemente in ambito odontoiatrico).Nei mesi precedenti alla mia partenza, programmata per il mese di luglio, sono stata da loro aiutata in tutta la fase di preparazione del viaggio, che non è così semplice e scontata, soprattutto per chi si appresta a vivere questo tipo di volontariato per la prima volta. Documenti, vaccinazioni, biglietti aerei… sicuramente le cose pratiche da sbrigare non sono poche, e l’aiuto di chi sa già come muoversi è essenziale. Il mio suggerimento, forse scontato ma per me essenziale, è cercare di rintracciare qualcuno, tramite i referenti del progetto di volontariato o le proprie conoscenze, che sia già stato dove si è scelto di andare: ho ricevuto i consigli più preziosi.

Inoltre, ho iniziato a conoscere “a distanza” (il primo incontro di persona è avvenuto solo il giorno della partenza, all’aereoporto di Malpensa) la collega che avrebbe condiviso con me questa esperierienza: Francesca anche lei, fisioterapista 25enne della provincia di Venezia. Penso che il verbo “condividere”, ovvero “partecipare con altri a qualcosa, provare qualcosa insieme con altri”, sia quello che più si adatti, nel descrivere quanto da me e Francesca vissuto in questa esperienza.

Spartire insieme l’attesa del viaggio, l’impazienza della partenza, la scoperta di un mondo nuovo, il lavoro con i bambini ne ha raddoppiato il valore, arricchendo entrambe non solo di una reciproca nuova conoscenza. Trascorsi così i mesi dell’attesa, intercorsi tra la mia decisione di partire e la partenza, il 28 luglio è finalmente arrivato.

Ero pronta, a partire? Me lo sono chiesta più volte, me lo hanno chiesto in tanti. Forse per un viaggio del genere non si è mai davvero pronti, come mi ha detto una cara amica. Forse era solo arrivato per me il momento, tanto atteso, di prendere e andare.
E così, dopo un lungo viaggio, fatto di aereo, pullman e jeep eccoci a Mlali, Tanzania.
Non è facile descrivere l’emozione che suscita l’Africa.
E’ quasi impossibile definirne con le parole la sua infinita bellezza.
E’ molto, molto difficile raccontare le contraddizioni che vivi di fronte a questa terra, senza rischiare di cadere nella retorica o nei luoghi comuni.
Proverò invece a descrivere quella che è la realtà della missione e del suo centro, dove si è concentrata gran parte della mia esperienza.

Il centro riabilitativo pediatrico di Mlali, chiamato dai locali “Kituo cha watoto walemavu Mlali” (Centro per bambini handicappati di Mlali), sorge su una montagna che sovrasta il villaggio vero e proprio, dal quale ci si arriva salendo per una tipica strada sterrata africana di terra rossa. Venne fondato nel 1990 da un padre cappuccino toscano, Padre Angelo Simonetti, ed è attualmente interamente gestito dai locali. La storia del Kituo è raccontata sul sito internet italiano del centro, ed invito tutti quelli interessati a leggerla per intero. (www.ecodellemissioni.it)

Il Kituo comprende al suo interno una serie di strutture, tra le quali un dispensario per i farmaci, un piccolo studio dentistico, un laboratorio analisi, dei locali per lo svolgimento delle attività riabilitative, delle strutture in cui risiedono il personale, religioso e non, le mamme, i bambini, volontari, degli uffici, ma anche delle stalle per gli animali e delle piantagioni, che assicurano carne, latte, uova, caffè e prodotti della terra primariamente a chi vive nel centro ma anche al villaggio sottostante. Nel centro vivono 4 frati e 4 suore tanzaniani, che organizzano e conducono le attività al suo interno. Padre Sergi, francescano instancabile e di perenne buon umore, ne è il direttore.
Vi è poi il personale sanitario locale che lavora presso il Kituo, tra cui un medico, un tecnico di laboratorio, un odontotecnico, un tecnico ortopedico, un fisioterapista e le “dade”, paragonabili al nostro personale socio-sanitario e che si prendono cura dei bambini sotto tutti gli aspetti.
L’attenzione al Kituo è rivolta principalmente ai bambini disabili, che arrivano qui da tutta la Tanzania e non solo, essendo questo un vero e proprio punto di riferimento in questo ambito.
Al suo interno vengono accolti per periodi temporanei mamme con bambini molto piccoli, a cui sono già stati diagnosticati ritardi nello sviluppo psico-motorio correlati a disturbi neurologici e bambini un po’ più grandi, esiti di varie forme di Paralisi Cerebrale Infantile.

Essi ricevono qui l’assistenza necessaria per le attività quotidiane, nelle quali vengono stimolati al raggiungimento di una maggior autonomia possibile. Inoltre sono seguiti per quanto riguarda il loro percorso riabilitativo fisioterapico, le ortesi e gli ausili, grazie alla collaborazione tra le varie figure che lavorano al Kituo.
Il centro si occupa inoltre di piedi torti congeniti, che qua vengono trattati prevalentemente con il metodo Ponseti (gessetti) e di interventi chirurgici in ambito ortopedico, dal momento che un’equipe di chirurghi italiani si reca qui 2 volte all’anno per operare.

Come trascorrevano le nostre giornate al Kituo?
Appena tornata in Italia, mi è capitato di leggere il racconto di un altro volontario di Smile Mission, che descriveva come in Africa l’organismo si adatti rapidamente ad una sorta di bioritmo naturale, dettato dalla luce, che ci allontana dai ritmi stressanti e frenetici a cui siamo abituati e ci conduce ad uno stato di quiete fisica e mentale, sebbene le nostre giornate siano sempre state tutte molto intense, sia dal punto di vista lavorativo che umano. Ed è vero, succede esattamente in questo modo.
Così, la mattina, ci si svegliava spontaneamente al sorgere del sole, intorno alle 6, ancora prima che la sveglia suonasse. Colazione alle 7.15 e inizio della mattinata lavorativa alle ore 8.
Pranzo alle ore 12 e alle 14 ripresa del lavoro pomeridiano, che terminava intorno alle 16. Con il calare del sole calavano anche pian piano le energie,così che alle 21, 21.30 massimo, eravamo tutti nei nostri letti.
Mentre i giorni settimanali erano dedicati al lavoro, il sabato e la domenica erano solitamente dedicati al riposo. Abbiamo colto così l’occasione per fare un safari nello splendido parco nazionale del Mikumi e per visitare un villaggio Masai nelle vicinanze della nostra missione.
Dal punto di vista professionale, l’Africa è stata per me un’esperienza preziosa. Ho potuto vedere una realtà riabilitativa differente dalla nostra, per mezzi e conoscenze, ma soprattutto sono entrata in contatto con un’altra cultura, e con la sua concezione di disabilità. Sicuramente il sistema italiano, che pur con tutte le sue pecche in questi ultimi anni ha fatto grandi passi in questo ambito, arrivando alla totale inclusione dei soggetti disabili nella scuola, è lontano anni luce da quello africano, dove nelle tribù la disabilità è ancora spesso legata ad aspetti oscuri e superstiziosi, e fa fatica ad essere accettata, soprattutto dagli uomini. La povertà e la mancanza di mezzi materiali sicuramente non facilita la situazione, in un contesto dove anche chi ha tutte le possibilità fisiche e mentali fatica a cavarsela.

Dal punto di vista umano, quello che ho ricevuto è invece inestimabile. Le relazioni all’interno del Kituo, con gli altri volontari, il personale, ma soprattutto con le mamme e i bambini sono state sicuramente la cosa più speciale di questa esperienza, per la loro autenticità e intensità.
Ho usato spesso gli aggettivi “arricchente”, “prezioso” per descrivere la mia esperienza di volontariato in Africa. In alcuni momenti è sembrato un paradosso anche a me. Eppure, a volte, in un vuoto materiale quasi totale, ho respirato una pienezza difficile da descrivere.

Esiste, il mal d’Africa?
Non lo so, prima di partire per la Tanzania ero piuttosto scettica a riguardo.
Ora invece ho capito che per me mal d’Africa vuol dire una nostalgia infinita. Di quella terra rossa, di quelle stoffe colorate, di quella musica incessante, di quelle madri, bellissime, forti e dolci, che camminavano con i loro figli fasciati sulla schiena. Di quel silenzio surreale, di quel cielo stellato, ma soprattutto di quei bambini, che padre Sergi amava chiamare “Il sorriso di Dio”.
Asante sana Africa, grazie di tutto, ti saluto con la prima e sicuramente più importante parola che mi hai insegnato.

Francesca