Inside AfricA

 

Luglio 2014 – Inside AfricA – di Luisa Bertuetti

Ogni viaggio degno di nota inizia con un’improvvisa illuminazione: un piccolo istante di sana sconsideratezza e di incontrollato entusiasmo per la scoperta, per il mondo e per l’umanità. Accade così in una giornata uggiosa di fine febbraio; arbitrariamente senza troppi piani e perché, prenotai un volo di andata per la RDC e uno di ritorno dalla Tanzania. Piano molto sfuocato, aperto al viaggio. Non sai mai cosa può accadere, chi puoi incontrare ed è bene essere aperti all’imprevisto, anzi accettarlo come un amico. Quattro mesi di vita dentro l’Africa, solo io. Una sfida senza dubbio, perché -e questo posso dirlo soprattutto a posteriori- l’Africa ti mette davvero a confronto con te stesso, senza nessuna via di fuga. Ma allo stesso tempo il viaggiatore solitario è libero e bramoso di scoprire il mondo che gli è attorno. Non è facile, ma ne va la pena.

Africa il continente, ma non solo. Una parola carica di simboli, di immagini, di profumi che reca con sé un alone esotico di misticismo. Una terra dalla bellezza travolgente, dalla natura aggressiva e ruvida, dall’umanità forte e fragile. Non Africa, ma “Afriche” direi… dalle molteplici e variegate realtà nonostante i confini netti tracciati con il righello, che vivisezionano la carta geografica come per ricordarci che le ferite del colonialismo sono ancora lì. E bruciano.

Riassumere la mia Africa qui in poche righe è davvero surreale. Settimane trascorse nella loro duplicità: lente e interminabili come le piogge della foresta congolese e voraci e intense come i tramonti della savana. Ho trascorso i primi tre mesi abbondanti nel Nord Kivu presso la missione di Padre Giovanni e Concetta a Muhanga. Due persone fantastiche, dal grande coraggio e umanità che hanno saputo accogliermi e farmi sentire come a casa. E poi il Kivu: aspro, contraddittorio, dalla natura selvaggia, dalla bellezza rara, dai colori vivaci, dai temporali forti e improvvisi, dalle maree di fango, dalla gente imperscrutabile e imprevedibile. Una realtà fragile e delicata, in cui entrare in punta di piedi. Un mondo rurale che regala giornate tiepide che profumano di serenità, trascorse all’aperto tra gli scherzi dei bambini, la pittura dei miei murales e le chiacchiere con la gente del villaggio. Piccoli gesti quotidiani, una profonda ritualità quella della vita nella foresta. Poi eventi più grandi di te, e ne resti travolto: ribelli, fucili, sparatorie, razzie, bambini soldato, elicotteri dell’ONU. In una sola parola, guerra. Tutto come in un film o come in un libro di storia? No, la guerra vera è paura, dolore; è una mamma che si carica il fagotto in spalle, le sue poche pentole e il materasso e parte con i bimbi. Il villaggio vuoto,  la gente scappa e non sa dove andare: forse la foresta, forse quaranta km a piedi per arrivare al villaggio più sicuro. Lasciare la propria casa, il proprio campo, ovvero iniziare una nuova battaglia: quella contro la fame. E in tutto questo l’indifferenza dei “grandi” enti umanitari internazionali. Forse che il valore della vita sia proporzionale al reddito pro capite? Il dubbio è ragionevole e la rabbia è tanta quando l’ingiustizia del mondo ti colpisce come un pugno in faccia. In tutto questo marasma, la gente della foresta resiste, lotta e regala emozioni. Un’umanità spontanea che ci ricorda che condividere è possibile, che sorridere è lecito e che stando insieme è più facile.

In una domenica mattina piovosa lascio Muhanga: qualche abbraccio fugace, trattengo le lacrime e si va. Preferisco partire con la pioggia, fa sempre meno male. Il viaggio per la Tanzania si prospetta lungo e polveroso. Strade sterrate e fangose costellate di crateri lunari, ritardi, città brulicanti di persone, traghetti, inconvenienti, aeroporti, autobus… ma finalmente, sabato arrivo a destinazione nella mia nuova casa, a Mlali. Impagabile la soddisfazione di farsi una doccia. Il centro ortopedico e di riabilitazione è una realtà collaudata da anni ormai. Padre Sergi e gli altri frati lo gestiscono con passione e tutt’intorno hanno coltivato giardini e alberi da frutta. La realtà tanzaniana mi colpisce subito per la diversità dall’asprezza congolese. Qui ogni cosa è morbida e sinuosa: i colori sono caldi, la terra è di un rosso secco e la temperatura è gentile. È la savana. Aiutare i bimbi di questo centro non è sempre facile, ma dona emozioni intense e facilmente mi faccio contagiare dal loro entusiasmo. Nel pomeriggio invece, mi dedico ad altre attività: lavoro nei campi, faccio la farina, vado al mercato con il pikipiki, mungo le mucche e cerco di imparare il kiswahili. E per un po’ non mi sento più una muzungu, ma parte integrate della vita di questo centro. I frati, nonostante l’iniziale diffidenza, sono deliziosi e mi trattano con dolcezza. Troppo breve purtroppo il mio soggiorno a Mlali. Parto con l’animo colmo di malinconia e con in bocca ancora lo squisito sapore del  morso fugace che ho potuto dare a questa bella e intensa Tanzania.

Questi mesi di vita nel centro Africa sono stati per me una necessità di vedere il “mio” mondo (più per questione di nascita che d’appartenenza) dall’altra parte del mondo, fuori dagli schemi rigidi della nostra società occidentale. Perché mi sono sempre detta, deve esistere un’altra via, un altro modo di vivere libero da tutte queste sovrastrutture che siamo tanto abituati a considerare necessarie.  E la risposta è che un altro modo c’è. Africa è ricchezza, non solo di materie prime, ma soprattutto di umanità, e che offre -a chi le vuol vedere- nuove prospettive; che ci insegna che la diversità è una risorsa. Dico a chi le vuol vedere perché troppo spesso ho incontrato persone occidentali in Africa che non si accorgono di quanto siano ancora figli del colonialismo, tradotto oggi giorno piuttosto in un colonialismo culturale. Uomini troppo spesso dimentichi che sono ospiti in un’altra terra e che è doveroso rispettarne la cultura, le tempistiche e la lingua. Uomini come paladini fieri di una cultura “civilizzata” e aggressiva che pretende di essere “civilizzante”, ma sempre e comunque con le proprie metodologie.

Tirare le somme di questi mesi è altrettanto difficile che raccontarli. Il rientro in Italia è stato ed è tutt’ora traumatico. Lo shock culturale esiste davvero. Senza dubbio è stata un’esperienza unica e rivelatrice: un biglietto di sola andata verso la consapevolezza. E ora… ora mi sento di parlare e condividere il mio vissuto con altri. È questa è un’altra sfida, contro l’indifferenza. Raccontare la verità andando oltre al solito buonismo, è impegnativo e scomodo. Credo che l’Africa non chieda un mero assistenzialismo, ma una presa di coscienza personale, che ci spinga a cambiare la nostra vita e a cercare di cambiare quella degli altri. La verità è che l’Occidente ha troppo perché qualcuno non ha. La verità è che l’Occidente ha rubato e continua a rubare portando avanti perverse e amorali politiche di sfruttamento in tutta l’Africa. E allora scoppio a ridere, ma di una risata cinica quando sento parlare di fame e di povertà con superficialità, di pietismo per il bambino africano che muore di fame e poi… poi esco di casa, mi riempio il frigorifero, spreco e compro i regali di Natale… e certo, un nuovo cellulare. Ah è vero quella storia sul coltan, ma tanto di certo non sarà il mio gesto a cambiare il mondo. Io invece, a volte, invidio il bambino africano che non è schiavo del consumismo, delle multinazionali e della superficialità e che nonostante le privazioni e la durezza che il futuro gli prospetta, è pieno di vita. Ed è libero, e non ha paura della natura o della notte o dei temporali. Non ha paura del diverso, non ha paura del contatto umano… non ha paura di vivere.

Luisa

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